“Sono Alessia, ho 25 anni e studio Fisica teorica all’Università di Milano. Fin da piccola ho sempre praticato sport, anche a livello agonistico. A 8 anni, durante una visita medico-sportiva, mi è stato diagnosticato un prolasso della valvola mitrale che andava tenuto sotto controllo. Una patologia congenita, con cui ero nata ma che, fino ad allora, non mi aveva causato fastidio o dolore”.
Inizia così la storia di Alessia Galli, di Calolziocorte in provincia di Lecco, laureanda in Fisica, operata all’Humanitas Gavazzeni per un prolasso della valvola mitrale tramite la tecnologia robotica grazie all’equipe del dottor Alfonso Agnino, responsabile della Cardiochirurgia robotica e mininvasiva di Humanitas Gavazzeni di Bergamo.
Il prolasso della valvola mitrale è una patologia spesso asintomatica e di difficile diagnosi, di origine ereditaria e congenita per il 90% dei casi; si stima che a soffrire sia circa il 2-3% della popolazione mondiale (circa 180 milioni di persone nel mondo): più di un milione in Italia, circa 230mila in Lombardia e circa 2mila a Bergamo.
Per curarla viene in aiuto anche la tecnologia robotica.
Un’innovazione in campo cardiochirurgico che permette di intervenire in modo “soft”: l’estrema accuratezza della mano robotica riduce infatti al minimo il trauma dei tessuti (il cardiochirurgo con questa tecnica esegue 4 incisioni di 8 millimetri invece di aprire il torace). E questo si traduce in un’importante diminuzione del dolore, un ridotto rischio di sanguinamento, un quasi totale abbattimento dei rischi infettivi, un evidente vantaggio estetico (e quindi psicologico) e un rapido ritorno a una vita normale senza necessità di riabilitazione.
La storia di Alessia
“Dopo il primo ecocardiogramma, in cui è emerso il problema, ogni anno ho affrontato visite per monitorarlo. Fino a quando, a 11 anni, mi è stato imposto lo stop a ogni tipo di attività sportiva perché il prolasso si era aggravato. Ho dovuto interrompere la pallavolo, la mia più grande passione: questa rinuncia mi ha fatto molto male, mi allontanava dai miei coetanei con cui fino ad allora avevo condiviso lo sport”, racconta Alessia.
Un verdetto difficile da accettare
“Negli anni ho proseguito i controlli di routine e dalle visite emergeva sempre un peggioramento della situazione, anche se io stavo bene fisicamente. Poi a giugno 2021 la visita di controllo ha messo in evidenza come il prolasso si fosse ulteriormente aggravato. A quel punto mi è stata proibita qualsiasi forma di movimento, anche una semplice corsa o passeggiata in montagna. E queste erano le uniche cose che mi erano rimaste, che mi facevano sentire viva. Quando mi è stata comunicata questa ennesima privazione, è stata una sofferenza perché voleva dire ancora una volta rimodellare la mia vita, rivedere le mie abitudini. Il medico che fino ad allora mi aveva seguita mi ha suggerito di rivolgermi a un centro più specializzato e alla prima visita dal cardiologo, pochi mesi dopo, a novembre, è stato subito chiaro che l’intervento fosse l’unica strada possibile per risolvere il problema. Ricordo di essermi sentita quasi sollevata, perché fino ad allora non pensavo nemmeno di poter essere sottoposta a un intervento e invece, finalmente, sembrava si potesse risolvere tutto”, prosegue Alessia.
La speranza ritrovata
Così Alessia si è rivolta all’ospedale Humanitas Gavazzeni di Bergamo dove il dottor Agnino le ha spiegato che poteva sottoporsi all’interno di cardiochirurgia robotica e che, per lei, sarebbe stato risolutivo.
“Non dimenticherò mai che, appena mi sono svegliata dall’anestesia, la prima domanda che ho fatto al cardiochirurgo è stata: posso correre? Adesso mi rendo conto che può sembrare una domanda assurda al risveglio da un’operazione di questo tipo, ma per me voleva dire davvero tornare a vivere”, racconta Alessia.
“La robotica consente di intervenire anche su pazienti fragili, come gli anziani, laddove un’operazione che implica l’apertura dello sterno, quindi della gabbia toracica, sarebbe più complicata e pericolosa – commenta il dottor Alfonso Agnino –. Inoltre, un aspetto importante della guarigione del paziente riguarda l’assenza di cicatrici visibili. Il fatto che queste siano davvero impercettibili aiuta nel percorso di cura perché il paziente, non vedendo segni dell’operazione, si sente guarito anche a livello psicologico”.
Il raggiungimento della vetta più alta
“Quando parlo dell’intervento e della sofferenza che l’ha preceduto mi sembra di rievocare un’altra vita e un tempo lontanissimo anche se, in realtà, ne è passato così poco. Mi sento completamente rinata – commenta commossa Alessia – Ho ripreso normalmente tutte le attività che avevo dovuto abbandonare, tra cui la montagna. E, dopo anni, sono arrivata davanti alle tre cime di Lavaredo: lì mi sono commossa, ripensando all’intervento che era andato bene e al fatto che fossi lì, con il mio cuore che stava bene”.