Ci sono malattie che hanno acquistato il nome di chi le ha scoperte, di chi ne ha determinato i confini, o di chi le curate per prime.
Tra queste, il cosiddetto Morbo di Dupuytren, che prende il nome dal barone parigino che, nel lontano 1831, descrisse per primo le caratteristiche di questa patologia.
Si tratta di una malattia che colpisce la mano e che si manifesta attraverso la comparsa di un nodulo che si forma nel palmo e che, pur non provocando alcun dolore, può rappresentare un problema anche serio sulla mobilità delle dite.
Ne parliamo con il dottor Davide Smarrelli, responsabile della Chirurgia della Mano di Humanitas Gavazzeni di Bergamo.
Dottor Smarrelli, come e perché si forma il Morbo di Dupuytren?
«Il Morbo di Dupuytren è una patologia benigna, nello specifico consiste nella proliferazione, cioè nella progressiva crescita, della struttura che tutti noi abbiamo nella mano, sotto la cute, che si chiama fascia palmare. Colpisce in particolare le persone che ne hanno una predisposizione cromosomica e una riconosciuta familiarità. Inizialmente si presenta come un piccolo nodulo sotto pelle, un ispessimento che sembra un callo e produce una piccola grinza sulla pelle, per poi ingrandirsi e diventare un vero e proprio cordone».
In quanto tempo il piccolo callo può divenire un “cordone” ed è il caso di intervenire?
«Bisogna dire che questa è una patologia che ha una sua “velocità di crociera” poco prevedibile. La difficoltà di analisi è data anche dal fatto che si tratta, come accennato, di una malattia che non produce dolore, ha un processo di sviluppo molto silenzioso, per cui il problema avanza senza che la persona che ne è colpita se ne renda del tutto conto. Le dita cominciano a essere un po’ ripiegate su sé stesse – perché il cordone, composto da un tessuto collagene molto duro, agisce da tirante e non permette al dito di estendersi in modo corretto –, è vero, ma l’uso della mano in generale non viene coinvolto, per cui si tende a sottovalutare il problema».
In che cosa consistono gli interventi di cura del morbo di Dupuyteren?
«Prima di tutto bisogna sottolineare che questo morbo è una delle poche malattie che non deve essere aggredita nei suoi stati iniziali. Certo, non bisogna aspettare di avere le dita a uncino, impossibili da raddrizzare, ma intervenire troppo presto oltre a non aiutare può addirittura essere deleterio. Quando è il giusto momento, in base a quanto evidenziato dallo specialista, si può intervenire in vari modi. Purtroppo i metodi conservativi tutori, vitamine particolari, pomate o terapie anche fisioterapiche, si sono rivelati inefficaci e quindi alla base dopo la corretta identificazione dello stadio clinico, si consiglia un serrato monitoraggio clinico».
Perché non è consigliabile intervenire al primo stadio della malattia?
«Perché dal punto di vista istologico nei primi stadi le cellule sono ancora molto attive e ogni traumatismo è un “insulto” alla struttura del “cordone”, che fornisce un ulteriore stimolo alla sua formazione, per cui è meglio rimandare l’intervento a momenti futuri».
La soluzione è quindi di tipo chirurgico?
«Non esattamente, diciamo che si parla di un trattamento parachirurgo personalizzato sulle esigenze del singolo paziente. La classica incisione con cui si apre la mano e si interviene bonificando l’area interessata dal morbo è sempre più rara, perché oltre a essere molto impattante non esclude del tutto la possibilità di recidiva. Oggi si tende sempre più a procedere con specifici trattamenti percutanei, che prevedono l’uso di particolari aghi con cui si va a rompere il cordone in più punti, fino a che il dito interessato torna a raddrizzarsi e a muoversi liberamente. Una valida alternativa, sempre di tipo percutaneo, può essere data da un trattamento di tipo infiltrativo: da questo punto di vista sono state predisposte terapie enzimatiche che presto potranno essere validamente utilizzate per “sciogliere” il cordone così che sia possibile, in uno dei giorni seguenti, effettuare la manovra riduttiva della struttura. Dopo l’effettuazione del trattamento si consiglia di indossare un tutore, almeno la notte, per due mesi, per evitare che i punti del cordone interrotto tornino ad avere contatto tra loro, riformando la struttura».
C’è un pericolo di recidiva anche nei trattamenti percutanei?
«Purtroppo sì, sono interventi che non assicurano una guarigione definitiva. Ma visto che anche la chirurgia a cielo aperto ha questo rischio, si ritiene più pratico intervenire solo quando serve e, soprattutto, nel modo meno traumatico possibile».