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Intervista al dottor Lanzeni: «I miei 30 anni in corsia con i pazienti al centro»

L’ospedale, ne è convinto, non può essere come un campo da rugby, in cui il malato rischia di restare schiacciato nella mischia. E nemmeno un tavolo da ping pong dove può sì finire al centro, ma bersaglio della pallina. Per Felice Lanzeni, 30 anni alla direzione sanitaria di Humanitas Gavazzeni, nell’ospedale si deve lavorare come in una cordata dove ognuno coopera con l’altro per raggiungere l’obiettivo e il paziente è saldamente e concordemente portato in vetta.

Dottor Lanzeni, in questo lungo periodo, che figura ha voluto essere per Humanitas Gavazzeni?

«Non mi ha mai interessato assumere ruoli di comando, ho cercato di indicare una modalità e uno stile di lavoro. Negli anni le realtà della medicina e degli ospedali sono molto cambiate, con grandi progressi sia in ambito tecnico che sociologico; mi pare però di vedere che i valori in gioco non siano mutati perché quando si hanno problemi di salute tutti noi abbiamo bisogno di un percorso burocratico-alberghiero facilmente agibile e di un trattamento clinico efficace e competente, e abbiamo bisogno anche di una buona relazione; noi tutti lo percepiamo e oggi la medicina può dimostrare che la relazione empatica è in grado di attivare risposte positive per l’organismo di ordine fisiologico in reciproca influenza con l’ambito psicologico».

Quali sono, quindi, i valori che è riuscito a mantenere saldi negli anni?

«“Riuscito” sarebbe magnifico, diciamo piuttosto che ho tentato, magari con una certa costanza, come credo facciano tutti i medici. Il valore guida è l’umanizzazione dell’ospedale».

Dunque, centrale è stato l’aspetto umano.

«È fondamentale perché il malato deve essere curato, ma bisogna anche prendersene cura. Ciò spiega perché la parte infermieristica nel tempo ha acquisito sempre più importanza; oggi è una professione sanitaria con pari dignità di quella medica e ha più prossimità con il prendersi cura e, come detto, non ha valenza “solo” etica e sociale, ma anche terapeutica».

Nel corso della sua direzione come valutava il suo operato?

«Mi ponevo questa domanda: “Ricovererei qui la persona a me più cara?”».

E lei che risposta si è dato?

«Onestamente sì, all’Humanitas Gavazzeni non siamo perfetti, però ci sforziamo di avere questa attitudine alla medicina olistica e parliamo spesso di umanizzazione, insieme a considerazioni squisitamente mediche: parole e numeri. Non è facile, creda; vede che anch’io nel parlarne faccio fatica a non scindere ciò che deve stare intrinsecamente unito? Oggi si parla spesso di valori, ma il difficile è concretizzarli, cioè praticare le virtù».

Secondo lei un buon camice bianco quali peculiarità deve avere?

«Ricordo che i grandi medici che ho incontrato agli inizi della mia esperienza lavorativa avevano in comune una caratteristica non molto diffusa, oltre alla competenza e al carisma: quando parlavano con colleghi anche alle prime armi, com’ero io, rispondevano come avrebbero fatto al professionista già affermato. Mi ha sempre colpito questo aspetto e da lì mi sono convinto della fondamentale importanza nei processi di cura della cooperazione, della cordata di cui dicevo. Una volta il grande reparto lo faceva il grande primario, oggi non basta, serve ci siano attorno ottimi collaboratori, convinti di cooperare. Siamo nel mondo delle reti e l’ospedale deve assolutamente lavorare in rete. Proprio per questo nella nostra struttura si lavora molto per gruppi multidisciplinari».

Ci sono «battaglie» che ha condotto e che ha sentito in modo particolare?

«Ho lavorato cercando di fare in modo che l’ospedale crescesse nella conoscenza medica, nella competenza professionale, nella metodologia organizzativa, ma tutto questo ben coeso all’aspetto umano perché la medicina è, ritengo, un sapere umanistico che si avvale di molteplici conoscenze scientifiche».

Ad esempio?

«È capitato che andassi dagli addetti del front office per dir loro di non dimenticare mai che chi si presenta allo sportello ha sempre e comunque un patema più o meno grande, anche se si presenta solo per un check up. Anche se la loro attività è fatta di numeri, per me non sono personale amministrativo, ma sanitario. Chi lavora in un ospedale è sempre un sanitario».

Com’è cambiata l’azienda nel tempo?

«È molta cresciuta, il layout si è sviluppato, la tecnologia si è arricchita, ha colto il rinnovamento culturale delle metodologie di qualità. La qualità, come oggi interpretata, è stata uno snodo fondamentale: un tempo era una dote individuale, oggi è diffusa, si attua con metodologie condivise e si traduce in sicurezza e garanzia per il paziente. In questo nostro percorso abbiamo aderito fino dal 2006 a Joint Commission International, metodologia di qualità articolata proprio attorno a concetti di sicurezza dell’ospedale e appropriatezza della cura. È stato ed è un percorso impegnativo, ma sicuramente ne valeva la pena».

Il rapporto con il territorio si è fatto più forte.

«Sì, in particolare l’attivazione di molte specialità mediche e del pronto soccorso, rispetto alla clinica privata tradizionale, ha rappresentato una svolta di significativa apertura al territorio in una provincia che dal punto di vista delle cure è di grande livello, sia nel pubblico che nel privato e trova nella Ats (ex Asl) a mio parere, non da oggi, un’azione di coordinamento e integrazione rilevanti».

Che resta da fare ora?

«C’è un altro salto in avanti che vorremmo realizzare: raggiungere la capacità di misurazione obiettiva di quello che facciamo. Non è facile, ma è il grosso sforzo, credo, degli ospedali di oggi. È un salto culturale importante. Già sono attive metodologie come il Programma nazionale esiti e, in Lombardia, performance che prevedibilmente avranno grande sviluppo».

Perché?

«Dobbiamo fare in modo che il paziente sia davvero al centro e abbia tutte le informazioni e i parametri per scegliere come curarsi e per poter valutare la cura ricevuta. Del resto tutti noi sanitari dobbiamo sì rispondere all’azienda in cui lavoriamo, ma il nostro vero capo, ne sono convinto, è il paziente».

Ha lasciato la direzione sanitaria, ma i rapporti con Humanitas Gavazzeni non si interromperanno, anzi proseguiranno con delle consulenze. Quale è il suo sogno per questo ospedale?

«Nel corso delle riunioni sulla qualità che le nostre unità operative portano avanti e che ho avviato per la convinzione che “tutti servono” (lo diceva tra gli altri il poeta e statista senegalese Senghor) vorrei mettere attorno al tavolo anche il paziente, perché se in un ospedale tutto è indirizzato al paziente, non può mancare proprio lui. Non saprei davvero come fare, mi sembra irrealizzabile, ma è solo un mio limite; in fondo l’ospedale è un luogo dove avvengono miracoli umani tutti i giorni quindi… Tra l’altro questo ospedale, che ha più di cento anni di storia, ha avuto sempre una forte attitudine all’umanizzazione, tanto è vero che qui già negli anni Settanta si facevano riunioni tra medici e pazienti».

Restando sul futuro, i dati dimostrano che sempre meno giovani intraprendono la professione medica. C’è qualcosa che vuol dir loro?

«Posso solo dire quale è stata ed è la mia riflessione personale: si è sempre parlato di vocazione del medico, ma non sono in grado di dire se esiste o se debba esistere. Sicuramente però questa professione richiede una buona dose di passione, perché impone sacrifici e anche una struttura psicologica che regga l’impatto emotivo, perché certi pazienti, la loro storia, te li ricordi per tutta la vita. E deve essere così, se così non fosse non saremmo medici».

 

Intervista di Elisa Riva, pubblicata sul quotidiano “L’Eco di Bergamo” venerdì 20 gennaio 2017.