Le articolazioni mobili – anca, ginocchio, caviglia, spalla, gomito e polso – sono le strutture che assicurano il regolare movimento del nostro organismo. Sono composte da varie parti, tutte ugualmente importanti, che hanno la funzione di consentire la contiguità tra ossa diverse favorendo la mobilità degli arti inferiori e superiori.
Il tempo, gli eventi traumatici o alcune patologie come l’artrosi possono influire negativamente sul funzionamento delle articolazioni, in particolare di quelle che subiscono il maggior carico: ginocchio e anca. Quando questi meccanismi perfetti si inceppano può diventare necessario sostituirli con protesi biomeccaniche, oggi sempre più sicure e resistenti, come ci spiega il dottor Francesco Verde, responsabile dell’Unità Funzionale di Chirurgia di Anca e Ginocchio.
Dottor Verde, la ricerca in campo ortopedico ha un ruolo sempre più importante. Qual è la direzione adottata in Humanitas Gavazzeni da questo punto di vista?
«Da una parte stiamo lavorando per mettere a punto un protocollo di studio su un’applicazione biomeccanica relativa alle protesi di ginocchio. L’obiettivo che ci siamo prefissi è quello di individuare la migliore tecnica chirurgica di impianto possibile. Dall’altra siamo impegnati a migliorare sempre più la gestione del percorso del paziente in tutto il percorso di cura, al fine di ridurne quanto più l’impatto».
Che cosa significa ridurre l’impatto operatorio e post-operatorio dei pazienti sottoposti a interventi chirurgici di sostituzione protesica?
«Significa semplificare le modalità e accorciare i tempi dell’intervento, che in un immediato futuro diventerà di tipo ambulatoriale. E, di conseguenza, accorciare anche i tempi di recupero del paziente, che la sera stessa dell’intervento può tornare a casa. Si tratta di intervenire sull’organizzazione ospedaliera, sulla mentalità dei pazienti e sulle infrastrutture esterne all’ospedale, quelle in cui il paziente deve, una volta uscito dall’ospedale, svolgere le attività di riabilitazione. La prima parte, quella che riguarda l’attività ospedaliera è da noi già applicata con il progetto fast track, che ci consente di ridurre in modo sensibile l’impatto dell’intervento e del post operatorio. Il nostro obiettivo è quello di migliorare ulteriormente questa situazione anche sensibilizzando i soggetti che devono entrare a farne parte».
All’attività medica e chirurgica lei affianca quella di ricercatore. In quali proporzioni?
«Le tre attività sono talmente integrate che è difficile distinguerle l’una dall’altra. Diciamo che alla ricerca medica dedico oggi il 30% della mia attività, percentuale che idealmente dovrebbe arrivare, in futuro, al 50%».
Quali sono le difficoltà e le soddisfazioni dovute a questo triplo impegno?
«Le difficoltà derivano, per riagganciarmi alla domanda precedente, al poco tempo che abbiamo a disposizione per la ricerca. Le soddisfazioni derivano invece dal fatto che questo tipo di impegno ci ha permesso finora di raggiungere risultati molto superiori alla media – dal punto di vista della casistica operatoria Humanitas Gavazzeni può essere tranquillamente inserito tra i primi 5 ospedali d’Italia – per cui riusciamo ad avere un ritorno di soddisfazione dei pazienti che ci riempie di orgoglio e di voglia di migliorarci sempre più».
Quali sono le sue speranze per il futuro dal punto di vista della vostra attività di ricerca?
«La mia speranza è quella di riuscire a ottenere una chirurgia dal minimo impatto con il paziente, utilizzando i migliori impianti possibili. Un obiettivo che, come ho detto prima, in gran parte è già realizzato: si tratta per noi di continuare lungo una via già aperta, che stiamo percorrendo a gran velocità».
Quanti pazienti sono potenzialmente interessati dalla vostra attività di ricerca?
«Tutti i pazienti che vengono operati nella nostra Unità Funzionale e che rientrano nel progetto fast track, parliamo di più di 600 persone protesizzate all’anno, possono essere considerati un ambito di studio, ovviamente secondo le regole di rigore e di etica previste dalla normativa vigente».
Per chiudere, una domanda personale: quando è perché ha deciso di intraprendere la professione medica?
«La scelta della medicina è maturata progressivamente negli anni, probabilmente ha influito anche il fatto che mio padre e mio nonno erano medici. Ma devo dire che si è trattato di una scelta che ho maturato individualmente. In particolare, la decisione di dedicarmi all’ortopedia è dovuta in parte al fatto che gli ortopedici sono stati i medici che mi hanno seguito di più, quando ero giovane, e in parte al fatto che si tratta di una branca sia clinica sia chirurgica che ha anche una parte fisica, di biomeccanica applicata alla chirurgia, che mi appassiona molto».
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