I dati riportati dai registri internazionali dicono chiaramente che oggi il tumore alla tiroide è il quarto per diffusione tra le donne – dopo quelli del seno, del colon retto e del collo dell’utero – e costituisce il 6% di tutte le diagnosi che riguardano le stesse donne. Ma i suoi numeri sono in ascesa e si prevede che entro il 2020 questo tumore sarà il secondo femminile più diffuso preceduto, dal punto di vista dell’incidenza, dal solo tumore al seno.
È fuori di dubbio che si tratti di un tumore in prevalenza femminile: la proporzione è di 4 a 1 rispetto agli uomini. La buona notizia è comunque che si tratta di una neoplasia con un tasso di sopravvivenza molto elevato: chi ne risulta colpito guarisce nella maggior parte dei casi nel giro di cinque anni dalla diagnosi.
La diagnosi precoce, per intervenire prima e meglio
«I casi di tumore alla tiroide più diffusi e che arrivano ad interessare il chirurgo – spiegano gli specialisti dell’Unità Operativa di Chirurgia Generale di Humanitas Gavazzeni Bergamo, il cui responsabile è il prof. Orlando Goletti – sono quelli che riguardano l’epitelio follicolare e che, per nostra fortuna, possono essere guariti nella quasi totalità dei casi. Certo è che una diagnosi precoce, ossia il riscontro di un nodulo neoplastico ancora di piccole dimensioni e che non ha interessato i linfonodi, rappresenta la soluzione ideale per intervenire al meglio. Per questo, il ruolo di ecografisti dedicati che possano utilizzare ecografi di ultima generazione è fondamentale. Tanto quanto la capacità di patologi esperti che, esaminando poche cellule prelevate dal nodulo sospetto, siano in grado di pervenire a una diagnosi preoperatoria di certezza o di sospetto di neoplasia maligna».
L’intervento riguarda nella grande parte dei casi l’asportazione completa della ghiandola «eventualmente comprese alcune stazioni linfonodali a seconda dei casi – aggiungono gli specialisti –. In pazienti selezionati, inoltre, a seconda della dimensione del tumore e delle sue specifiche caratteristiche biologiche, si può decidere di procedere all’asportazione di una sola metà della ghiandola. Si tratta di intervento che oggi sono eseguiti attraverso una piccola incisione e con un’incidenza di complicanze che ruota attorno all’1%. Se le ghiandole sono piccole, inoltre, è possibile intervenire con una tecnica mininvasiva videoassistita, con il supporto cioè di videocamere ad alta definizione».
Una grande novità è infine rappresentata da cosiddetta chirurgia robotica, che prevede l’utilizzo di uno o due accessi dal cavo ascellare. Si tratta però di una tecnica ancora da validare e che per ora viene eseguita in pochissimi centri», concludono i chirurghi di Humanitas Gavazzeni.