L’aterosclerosi è una patologia che decorre per molti anni senza sintomi, fino al manifestarsi dell’angina o dell’infarto.
Nelle arterie coronariche si formano delle placche che, col tempo, aumentano di volume e ostacolano il flusso di sangue, compromettendo in modo pericoloso la funzionalità del cuore e, talvolta, mettendo a rischio la vita del paziente.
Per prevenire l’aterosclerosi si deve intervenire sui fattori di rischio come il fumo, l’alimentazione e l’ipertensione. Quando la malattia si manifesta, di solito con infarto, la terapia farmacologica non basta e si deve intervenire con procedure di “rivascolarizzazione coronarica” come l’impianto di stent o bypass.
«Lo stent è una protesi metallica microscopica, il cui inserimento avviene per via percutanea con l’introduzione di un catetere dall’arteria del polso o anche dell’inguine – spiega Antonino Pitì, cardiologo, responsabile del Dipartimento Cardiovascolare e della Cardiologia di Humanitas Gavazzeni Bergamo –. All’interno del catetere si fa avanzare un filo metallico fino a oltrepassare la placca che ostruisce il flusso di sangue, e qui si gonfia un palloncino che apre come una molla lo stent al suo esterno fino a raggiungere il diametro desiderato».
Se l’impianto di stent può essere eseguito dal cardiologo sul paziente sveglio e anestetizzato solo localmente, per l’intervento di bypass coronarico invece il cardiochirurgo opera il paziente addormentato in anestesia generale.
Come precisa Paolo Panisi, responsabile della cardiochirurgia di Humanitas Gavazzeni: «Con il bypass si crea un “ponte” che scavalca il tratto ostruito dell’arteria, usando l’arteria mammaria o le vene delle gambe, le safene. Anche se oramai si ricorre a un approccio chirurgico mininvasivo con accesso in ministernotomia o sottomammario, l’intervento di bypass resta un’operazione chirurgica delicata con una permanenza iniziale del paziente in terapia intensiva. La degenza media è di circa 7 giorni contro i 2/3 dell’impianto di stent».
Anche la ripresa delle attività quotidiane della persona segue ritmi diversi: con lo stent è sufficiente una settimana, mentre con il bypass i tempi si allungano. Ma la scelta tra i due approcci spetta sempre allo specialista. Quando entrambe le procedure si possono applicare a un paziente, allora diventa essenziale la collaborazione tra cardiologi, cardiochirurghi e anestesisti nell’individuare la metodica più risolutiva.
È un lavoro d’èquipe in cui vengono valutate attentamente anche le comorbilità, cioè la compresenza di malattie che possono portare a criticità operatorie.
In entrambi i casi, dopo l’intervento, bisogna comunque eliminare i fattori di rischio che potrebbero causare una recidiva. Colesterolo, ipertensione e diabete sono tenuti sotto controllo con un’adeguata terapia farmacologica, e lo stile di vita deve adeguarsi alla nuova condizione.