Umanizzare la cura. Tradotto: rendere più umano il percorso terapeutico per chi si trova ad affrontare la malattia. Può sembrare scontato che, nelle diverse fasi della cura, si metta al primo posto l’empatia e l’ascolto verso l’altro. Ma, in realtà, è in questo piccolo e grande sguardo di accoglienza che sta la vera rivoluzione in campo sanitario. Specialmente in luoghi complessi dal punto di vista emotivo sia per i pazienti sia per il personale medico: come la Terapia Intensiva.
Come rendere questo spazio più umano? Come portare l’empatia in un luogo di sofferenza, recupero e straniamento? Ne parla il dottor Giovanni Albano, direttore del Dipartimento di Anestesia e Terapia intensiva di Humanitas Gavazzeni, che da molti anni (dal 2015) lavora con l’equipe del reparto a un progetto di radicale «umanizzazione» della Terapia intensiva.
Dottor Albano, da dove siete partiti?
“Siamo partiti introducendo un percorso di mobilizzazione precoce dei nostri pazienti, per facilitare il ritorno a una vita normale e favorire il recupero fisico dopo interventi delicati, grazie alla presenza del fisioterapista nell’équipe medica”.
E poi?
“Poi nel 2017 si è iniziato a parlare di «terapia intensiva aperta», per garantire l’umanizzazione delle cure e il rispetto della dignità della persona nei reparti di terapia intensiva con un disegno di legge del 2017 dedicato proprio a questo. Un’innovazione rivoluzionaria per il “santuario inaccessibile” quale era considerata da decenni l’area critica per antonomasia, vale a dire la Terapia intensiva. E così abbiamo reso «aperta» anche la nostra Terapia intensiva con ingresso facilitato a parenti al fianco del malato a tutte le ore. I segnali positivi dati dai pazienti da questa vicinanza affettiva mi hanno subito convinto che questa era la strada giusta”.
Vi siete fermati lì?
“No. Abbiamo iniziato a studiare quell’incredibile contenitore chiamato «umanizzazione delle cure» che deve partire per prima cosa da luoghi. Dentro l’umanizzazione così intesa ho trovato di tutto, dalla musicoterapia alla pet terapy, dalla cura del sonno alla tv. E così piano piano, non senza qualche ripensamento o dubbio, abbiamo trasformato la terapia intensiva in cui lavoriamo in un luogo dove, se si è ricoverati e si ha un minimo di autonomia, puoi avere un tablet e un cellulare per comunicare e svagarsi. Durante la notte spegniamo le luci abbaglianti per permettere ai pazienti di provare a dormire. E, se si vuole una pizza e si è nelle condizioni di mangiarla la portiamo, così come il caffè. Il tutto accompagnato da un investimento importante in formazione per il personale e in tecnologia, dai letti ad alta performance alle poltrone per favorire la mobilità”.
E poi è arrivata l’arte…
“Sì, nel 2018 nel “mio” ospedale prende il via un’iniziativa originale: “La Carrara in Humanitas”. L’Accademia Carrara, la Pinacoteca di Bergamo riempie l’ospedale e le sue pareti con enormi riproduzioni gigantografiche di dettagli dei suoi capolavori conservati nel Museo. Bellini, Hayez, Botticelli riempiranno corridoi, sale d’attesa e persino Pronto soccorso e rianimazione. Mi si chiede di scegliere quello per il luogo che frequento quotidianamente: la rianimazione. Scelgo Canaletto con il suo Canal Grande”.
Che cambiamento porta nella cura?
“Enorme, anche se all’inizio non è facile comprenderne il valore. È stato così anche per me: dopotutto siamo uomini sempre impregnati di pragmatismo, ci affidiamo alla sostanza, alla forza della scienza e dei numeri. Figuriamoci se i dipinti possono essere meglio di un antibiotico o un diuretico. Ma poi, a febbraio 2020 veniamo investiti da un’onda di morte: arriva il Covid e ci travolge. Tutta la Terapia intensiva si riempie unicamente di malati di Covid, molti muoiono, quelli che stanno meglio mi guardano. Iniziano gli sguardi che saranno i protagonisti dei miei peggiori incubi. E al termine di una notte tremenda, come tante che abbiamo vissuto, un mio collega mi dice: «queste immagini sulle pareti servono Gianni, mi hanno dato conforto, mi hanno fatto sentire meno solo, spero non li tolgano mai più». E lì ho capito la loro forza e la potenza di quella famosa ‘umanizzazione della cura’”.
Secondo lei dottor Albano, cosa provoca la vista di quel Canaletto ai pazienti?
“Credo che, insieme all’affetto ricevuto dai parenti che li vengono a trovare, dia loro una nuova spinta a lottare. Spesso giriamo il letto verso quella finestra affacciata sul mare e sui palazzi che tutto il mondo ci ammira dipinta da Canaletto, per lasciarli immaginare il giorno in cui ci torneranno. E in questo sogno, che tutti noi ci auguriamo e lavoriamo per rendere reale, sono convinto che riescano a trovare una motivazione in più per combattere e guarire”.